In Italia solamente l’1,7% delle imprese alimentari ha più di 50 addetti – contro il 10,5% della Germania o il 4,1% della Spagna – ed è in grado di esportare circa il 30% della propria produzione. Come ha dichiarato Denis Pantini, Responsabile dell’Area Agroalimentare di Nomisma: “Affinché l’export dei prodotti agroalimentari italiani aumenti, è indispensabile che si allarghi la base delle imprese esportatrici, in larga parte riconducibili ad aziende medio-grandi e rappresentanti una quota ancora ridotta del totale, meno del 20% del settore”.
L’estrema frammentazione del sistema produttivo italiano, basato su una miriade di micro e piccole imprese, genera un gap di competitività del nostro tessuto imprenditoriale, sicuramente ancora poco strutturato per affacciarsi all’estero.
Le aziende italiane, nonostante un mercato interno stagnante e regolato da una forte concorrenza e dalle leggi di mercato imposte dalla GDO, continuano ad avere una ridotta propensione all’ export agroalimentare (media di poco superiore al 20%): basti pensare che l’industria alimentare tedesca esporta circa il 35% di quanto produce, eppure i suoi prodotti non sono così famosi come i nostri. Si potrebbe, per esempio, prendere a modello il comparto vinicolo che esporta per oltre il 50% della produzione sui mercati esteri, circostanza che ha consentito a molte imprese del settore di compensare la riduzione della domanda sul fronte interno.
Anche quando esportiamo preferiamo restare vicino ai nostri confini. Il report di Nomisma evidenzia che due terzi dell’export agroalimentare italiano sono destinati a mercati “di prossimità” (Paesi dell’Unione Europea), mentre la restante quota si distribuisce tra America (13,5%), Asia (9%), altri Paesi Europei (7,6%) e Africa (2,4%). Questo rappresenta un forte limite perché i mercati lontani (soprattutto i mercati emergenti) hanno un potenziale molto più alto, parliamo di Cina, Medio Oriente o alcuni paesi del centro-sud America.
Il rafforzamento dell’export passa attraverso il potenziamento della logistica, anche mediante lo sviluppo di piattaforme distributive all’estero. Mentre i nostri competitor tedeschi, inglese e francesi possono godere di grandi piattaforme estere (Auchan, Carrefour, Metro, Aldi, Tesco), da noi le più grandi catene distributive sono quasi tutte cooperative e, come tali, sono focalizzate sui “soci” consumatori italiani e non hanno interesse ad espandersi fuori confine. Anche la scarsa presenza all’estero degli istituti di credito italiani costituisce un problema per un’ azienda nostrana, che si trova impegnata ad operare in un mercato lontano senza il supporto di una banca che parli la stessa lingua.
Come dice spesso Oscar Farinetti, esaltando la biodiversità italiana, “In Europa esistono 1.200 varietà di mele e in Italia ne abbiamo oltre 1.000.” La ricchezza del nostro patrimonio è una grande risorsa, ma può anche rappresentare un limite. Una polverizzazione dell’offerta rende difficile la comunicazione, soprattutto all’estero, abituati con i nostri concorrenti (le uve utilizzate per la produzione di vino in Francia sono circa 40, di cui solo la metà hanno rilevanza commerciale all’estero, in Italia ci sono oltre 600 vitigni autoctoni). Come teorizzava Barry Schwartz nel libro “Il paradosso della scelta“: una proposta costituita da molte scelte attira di sicuro, ma finisce per disorientare il consumatore rendendo difficile il processo decisionale d’acquisto. Ne è testimonianza il fatto che la top ten dei prodotti agroalimentari di qualità esportati producono l’80% del fatturato totale.
Sulla produzione il divario nasce dal fatto che l’Italia ha una superficie agricola inferiore a Francia, Germania e Spagna. I nostri competitor spesso giocano su produzioni in cui il prezzo medio di esportazione dei prodotti è più basso, perché gode di una competitività di costo molto più elevata. Noi, invece, ci posizioniamo su nicchie all’interno del mercato globale. Senza sacrificare le specialità delle produzioni a maggior valore, l’Italia potrebbe puntare sull’esportazione di prodotti più “standard”, facilmente identificabili ed esportabili in grandi quantità.
Le barriere tariffarie e (soprattutto) non tariffarie che ostacolano le nostre esportazioni agroalimentari in alcuni importanti mercati rappresentano degli sbarramenti insuperabili, spesso frutto di una “ritorsione” ai dazi e alle limitazioni imposte dall’Unione Europea. Gli accordi commerciali giocano un ruolo di primo piano; ne è una dimostrazione pratica quanto sta accadendo sul mercato del vino in Cina, dove Australia e Cile, grazie ad accordi bilaterali che hanno azzerato i dazi all’importazione, hanno eroso più del 10% del mercato a Italia, Francia e Spagna. Di fronte allo scenario geopolitico globale caratterizzato da repentini mutamenti, come la Brexit e la politica protezionistica di Trump, in Italia alcune associazioni impiegano il tempo a litigare e a dire NO a qualsiasi trattato commerciale di libero scambio, mentre all’estero fanno gli accordi e muovono il business.
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